Il PIL è oggi considerato l’indicatore più preciso del benessere di un paese. Altri fattori (ridistribuzione delle risorse, disuguaglianze, qualità dei servizi, situazione politica), fondamentali per determinare l’andamento di un paese, non sono, assurdamente, tenuti in considerazione. L’economia italiana va sempre peggio. Renzi aveva annunciato ad aprile che l’Italia sarebbe tornata a crescere e che la disoccupazione sarebbe calata. Ma i dati pubblicati dall’Istat pochi giorni fa parlano chiaro: il Pil italiano è calato dello 0,3% nell’ultimo semestre e la disoccupazione è aumentata dello 0,5% rispetto all’anno scorso.
Forse è il caso che l’Italia (e ormai praticamente tutti i paesi al mondo) ridefinisca le priorità delle sue politiche economiche. Forse è il caso di abbandonare un modello economico improntato sempre ed in ogni caso sulla crescita, e perseguito da sempre dai governi, che siano di destra, di centro o di sinistra. Ci sono molti dati, e basta osservare la realtà di tutti i giorni, le quali dimostrano che la crescita economica non è qualcosa di positivo sempre e comunque. Per esempio, la crescita non porta necessariamente benefici sociali ed economici a tutti gli strati della popolazione. In assenza di uno Stato regolatore (demonizzato dal pensiero unico neoliberista che lo definisce un inutile apparato burocratico), le ricchezze si accumulano inevitabilmente nelle mani di pochi, a scapito della maggioranza. Il PIL americano, per esempio, è salito del 130% dagli anni ’80, insieme però a disuguaglianze sociali ed economiche.
Sono stati proposti vari altri indicatori alternativi al PIL, ognuno dei quali utilizza un insieme di statistiche socio-economiche e le trasforma in un valore numerico, mediante il quale è possibile confrontare Paesi o regioni. Uno dei più conosciuti è l’indice di sviluppo umano (HDI – Human Development Index) che considera il reddito, l’educazione e l’aspettativa di vita della popolazione. Questo indice si può anche modificare per tenere in considerazione gli squilibri distributivi e di genere.
Un altro indicatore molto significativo è l’indice di Gini. Anche i Paesi più sviluppati mostrano variazioni geografiche e sociali nella distribuzione delle risorse che complicano l’interpretazione del PIL come indicatore di benessere. Per fare un esempio, il Brasile, che ha un elevato indice di Gini (circa 0,5) mostra come la notevole crescita economica sia stata distribuita in maniera ineguale tra i vari segmenti della popolazione. Con intere aree del Paese in povertà, il PIL riflette davvero il benessere economico?
Inoltre, qualsiasi legge o iniziativa che vada contro la crescita, quindi che la rallenti o che la interrompa, è da non considerare e da scartare a priori. Queste leggi possono essere, per esempio, in favore della protezione dell’ambiente, o in favore della tutela dei lavoratori. Ma la fede religiosa dei politici e degli economisti nel dogma della crescita quasi sempre ne impedisce l’approvazione. Poi se alla testardaggine dei politici aggiungiamo il pesante e costante lobbying delle grandi imprese private (basta guardare come questo influenza i processi decisionali dell’Unione Europea), che vogliono la maggior libertà di azione possibile per aumentare i propri profitti, è evidente che la crescita non può essere in alcun modo essere messa in discussione, nè in teoria nè in pratica.
Infine, come dice Serge Latouche in “Breve trattato sulla decrescita serena”, “contestare la società della crescita implica la messa in discussione del capitalismo”. Probabilmente è proprio questa la ragione principale per cui non si vuole abbandonare una società e un sistema economico che poggiano sulla crescita. Finchè non cambieremo il nostro modo di vivere, (consumo frenetico, ritmo della vita sempre più veloce e ricerca costante del profitto), e finchè le élites al potere trarranno vantaggio da una società di questo tipo, un cambio di rotta sarà improbabile.